Il racconto della vita del Commissario Calabresi ha tenuto sospesi gli spettatori all'Auditorium di Roma

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Roma. Se si decide di raccontare, con un libro, la morte, ma anche la vita del commissario Luigi Calabresi, ucciso la mattina del 17 maggio 1972, bisogna raccontare anche l’Italia di quel periodo, le ideologie vere e quelle false, i grandi spazi della politica e i suoi errori, il regime di terrore che avrebbe portato le persone, di lì a pochi anni, ad aver paura persino di prendere un treno. E poi lotte, utopie, slogan, movimenti. Bisogna nominare quelli che spararono, e provare a spiegare il motivo del loro gesto. Bisogna dire che questo motivo ha poco a che fare con tutte le storie circolate per anni, figlie dei pregiudizi e dell’ignoranza, tutte le storie che la gente ricorda anche più della versione poi confermata dalla giustizia, ché di questa si è parlato molto meno, come se la sentenza fosse stata decisa, una volta per tutte, sugli autobus, nei bar, per la strada, molto tempo prima (fenomeno, questo, tipicamente italiano).

Ma se si decide di raccontare questa storia, con un libro, chiamandosi Mario Calabresi, allora si raccontano anche la vita e la morte di papà Luigi, che in casa, anche quell’ultima mattina, poco prima d’uscire, era uomo, prima che commissario. Ci si prova anche se all’epoca non si avevano che due anni, ci si prova in nome di quei due ricordi sfocati, quelle due scene confuse, sbiadite, eppure sempre presenti nella memoria. Ci si prova in nome d’una madre che si è vista soffrire, fin dal primo momento, dall’ingresso in casa di quella nuova domestica che si scusa del ritardo perché fuori c’è traffico, hanno sparato a un commissario. Ci si prova perché poi ognuno ha un luogo dove poter incontrare i propri fantasmi, e Mario Calabresi, oggi giornalista di “Repubblica”, ha incontrato suo padre in montagna, e lì ha capito che avrebbe dovuto combattere perché alla sua famiglia fosse restituita, se non altro, la verità.

“Spingendo la notte più in là” è il libro da cui Luca Zingaretti ha tratto i brani letti il 6 dicembre all’Auditorium Parco della Musica, in una Sala Santa Cecilia gremita, e di fronte, tra l’altro, alla famiglia Calabresi, ad alcuni familiari dei componenti della scorta di Aldo Moro, alle vedove di Marco Biagi ed Ezio Tarantelli, alla figlia di Walter Tobagi.

Se il libro corre su un doppio binario, lo spettacolo, grazie alla scelta dei brani, non ha mancato di percorrerli entrambi. Zingaretti, che tra l’altro è stato la mente della serata, accompagnato al piano da Arturo Annecchino, ha avuto alle spalle un maxischermo su cui sono state proiettate immagini di stragi (via Fani, Piazza Fontana, Brescia, la stazione di Bologna), manifestazioni, comizi, ma anche immagini personali, familiari; ed è stato affiancato da tre lettori, Biancamaria Lelli, Sara D’Amario e Roberto De Francesco, che lo hanno coadiuvato nelle parti dialogate, diventando, di volta in volta, un agente della polizia, la domestica, la moglie del commissario, spesso parenti di altre vittime di attentati analoghi.

S’è ricordato, allora, l’uomo e il commissario, nel tentativo di dimostrare alla gente che l’uomo era il commissario e viceversa, che una sola è la persona, e che laddove finisce il commissario finisce anche l’uomo, il padre, il marito. Finisce la famiglia, e si costringe una donna al ricordo, e si costringono i figli alla ricostruzione, e ad imparare ad ascoltare serenamente il suono che fa il proprio cognome.