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UTV cinema :: centochiodi

Recensione del film: I centochiodi di Ermanno Olmi  di Sabrina Fiorito  1/1

Pur essendo l'ultima opera di finzione firmata dal maestro Ermanno Olmi, paradossalmente il film presenta i tratti tipici dello stile documentaristico, genere a cui si dedicherà il regista dal suo prossimo film in avanti. E' stato tra le pochissime pellicole italiane presentate quest'anno al Festival di Cannes, e ha grande valore testamentario perché riflette temi attuali particolarmente sentiti, poco affrontati e piuttosto scottanti. Ponendosi infatti in una prospettiva scomoda (pur essendo lui stesso un cattolico), Olmi non esita a sferrare coraggiosi e sobri attacchi contro la Chiesa di oggi, ponendo interrogativi sulla dubbia autenticità dei valori portati avanti dall'autorità ecclesiastica, forse ormai poco slanciata ad adempiere a quelli che dovrebbero essere i suoi compiti più immediati, reali.

La storia è incentrata su un professore di filosofia e sul suo rapporto con la cultura. Ad un certo punto del suo percorso professionale come insegnante viene colto da una serie di dubbi che lo portano infine a una soluzione drastica, definitiva: recide ogni rapporto con i tanto sofferti libri, perché capisce che non possono fornire la conoscenza, ma sono invece scritti in modo da imporre il modo in cui pensare, anziché fornire gli strumenti per imparare a capire, in modo libero. Dunque non rappresentano più la vera conoscenza, ma il braccio di un potere istituzionalizzato, il cui rapporto con l'insegnamento è diventato così stantio che non può assolvere più al suo ruolo originario di fornire sapienza.

Il professore (interpretato da Raz Degan, diretto sapientemente dal regista) allora inchioda quei libri nella biblioteca della facoltà, e s'imbarca in una svolta, un ribaltamento del suo modo di vivere che gli possa permettere di acquisire una nuova prospettiva del mondo, riacquisire i valori autentici da cui poter riemergere a una nuova e limpida percezione della conoscenza, intesa come scienza appresa dal basso, priva di sovrastrutture imposte dall'apprendimento istituzionalizzato, appunto, e dunque pura, scabra, genuina. La sua nuova vita sarà senza le comodità della precedente, ma in totale armonia con la natura e gli uomini che la abitano. Viene accolto da un gruppo di contadini sull'argine del Po, con cui instaurerà un sincero rapporto di amicizia, convivendo in modo aperto e ritrovando il giusto umile equilibrio per apprezzare la conoscenza essenziale.

L'identificazione del protagonista con un Cristo qualunque che è possibile incontrare sul proprio cammino quotidiano si connota nell'identica spiritualità del volere privarsi delle stabilità e certezze scontate di una vita comoda, per trovare nella povertà l'unica forma di libertà culturale, e dunque di indipendenza vera. In ciò si nota la poesia delle immagini, liriche quando scrutano i volti, osservano i paesaggi, i silenzi circostanti in perfetto stile documentario. Ecco che qui Olmi abbraccia al tempo stesso più tematiche: la libertà di vivere a proprio modo le diverse religiosità, la solidarietà nei confronti delle condizioni degli umili e, non da ultimo, la rilevanza che sarebbe opportuno dare ai rapporti umani, degradati nei tempi attuali dalla società massificata dalla superficialità del consumismo, per il quale anche i sentimenti finiscono per essere mercificati.

(articolo pubblicato il 15/06/2007)
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