Una scena del film, foto stampa

L’arrivo di Wang è il nuovo film dei Manetti Bros. Marco e Antonio Manetti hanno diretto Ennio Fantastichini, Francesca Cuttica, Juliet Esey Joseph e il personaggio totalmente creato al computer Li Yong, creato dal gruppo della Palantir Digital Media, in un lungometraggio di fantascienza indagante l’ottusità umana. Uscirà il prossimo 9 Marzo nelle sale, presentando vari livelli di analisi molti interessanti.

Li Yong è un essere alieno atterrato sulla Terra per scopi ancora non noti ai servizi segreti italiani. Italiani: infatti è atterrato a Roma, vicino San Pietro. Parla solo cinese e per questo motivo viene contattata Gaia (Francesca Cuttica) per una traduzione simultanea, per comprenderne le ragioni del suo arrivo. Ci riusciranno nel modo più sorprendente possibile, con un capovolgimento del punto di vista che denota una sceneggiatura molto curata.

Il finale non è scontato, coglie le contraddizioni italiane e mondiali nella semplicità di una breve frase: non giudicare ed agire se non si conosce. L’ottusità induce all’errore, anche disastrosi. Tanto più se sono i soliti pacifisti miopi, dalla strategia a corto raggio, a pensare che il bene per il prossimo è ciò che loro pensano. In questo, il messaggio dei Manetti Bros è incredibilmente simile a Il piccolo grande uomo: viene in mente la sequenza dove Jack Crabb (Dustin Hoffman) incontra il Generale Custer (Richard Mulligan).

Ma oltre all’analisi della storia raccontata, dell’ottimo Fantastichini al quale vorremmo potergli consegnare almeno un David di Donatello per la recitazione, quello che più colpisce è l’estetica proposta. Inquadrature, luce, montaggio e musiche di sottofondo creano un’opera totale che si discosta notevolmente dalla tradizione occidentale del ‘900 cinematografico, mostrando assonanze con le teorie di Richard Wagner.

In sintesi: nel teatro di Bayreuth il compositore di Lipsia incassò l’orchestra sotto il palco, così che la musica promanasse da una fessura e il pubblico, seduto su panche di legno, non si distraesse a guardare i musicisti. Dovevano rimanere concentrati allo scavo interiore psicologico proposto sul palcoscenico, nuotando oltre il golfo mistico. Quasi un’anticipazione del cinema, una estetica della devozione a quanto rappresentato, e indirettamente alla persona stessa di Wagner, un modo per guidare lo sguardo dello spettatore precisamente verso un unico obiettivo, quello dell’opera totale.

Riappare in questo film fantascientifico la medesima idea: non una sola inquadratura è sprecata per indirizzare l’attenzione dello spettatore al momento importante, che può essere il primo piano del dottor Curti (Ennio Fantastichini) così come quello di Gaia, la feritoia della porta nella quale sono rinchiusi, l’avanzamento strisciante sul pavimento visto dalla soggettiva di una persona ferita. Dipende dalla situazione, da ciò che è importante in quel momento vedere per vivere l’emozione della rappresentazione.

Non si parla di pura tecnica di ripresa. I Manetti Bros portano con sé lo stile televisivo. Pertanto, il tecnicista della critica televisiva avrà da molte righe pensato che nulla di nuovo è stato inventato. E’ solo tecnica. E rompere l’armonia delle inquadrature proveniente dal ‘900 di Monicelli, Truffaut, Renoir, Huston, Peckinpah, Fellini e tantissimi altri sia da considerarsi un oltraggio.

Invece siamo di fronte ad una rivoluzione estetica, così come per Wagner nell’Ottocento: è la presenza di un’ideologia che appone alla mera tecnica uno strato fondamentale. La contemporaneità di un evento e delle sue emozioni, così come accade nella nostra realtà che viviamo quotidianamente, viene vissuta tramite la giustapposizione di tanti momenti visivi distinti montati in sequenza. E’ un paradosso: noi percepiamo in contemporanea, non in sequenza. Mentre mangio l’olfatto funziona, non rimane sospeso in attesa di essere riattivato.

Non si nota in questo film la seguente idea: ho una scena, vedo cosa succede come se fossi in teatro. Invece siamo di fronte ad un espressionismo: l’immagine non c’è per essere scientifica e riproporre la realtà, vi sono tante immagini che raccontano il sentimento. E’ come un sogno: l’immagine non corrisponde necessariamente all’oggetto rappresentato, è un tramite simbolico per esprimere un sentimento. Di tutto il film rimangono il sentimento, le sensazioni, non il personaggio di Gaia o del dottor Curti. Per quanto i sacri registi del ‘900 siano avanzati tantissimo nel territorio della sperimentazione, della ricerca estetica espressionista, non hanno mai osato rinnegare l’unicità della scena, il fatto di dover vedere chiaramente cosa accade. Neanche Bunuel ha osato tanto e non è stato per motivi puramente tecnici.

La rottura dell’unicità dell’inquadratura è solo il segno di una profonda ideologia, un’autentica novità nel panorama cinematografico occidentale. Rimane aperta la seguente questione: lo si può applicare solo a film di fantascienza, a drammi psicologici o anche alle commedie?