I grandi artisti percepiscono con largo anticipo la loro fine. O forse ne esagerano la sensazione. In ogni caso hanno necessità di comunicare il loro pensiero: Woody Allen non sfugge a questa prassi e consegna con Magic in the moonlight la sua analisi della vita. Ma anche della morte, quale rapporto con gli altri bisogna tenere, cos’è l’Universo e l’aldilà. I personaggi che popolano la storia, di per sé semplice, sono sempre la trasfigurazione di Allen che parla a noi pubblico segnalando che la vita potrebbe non avere alcun senso, semplice si vive in quanto tali, senza alcun fine superiore o Paradiso che ci attenda dopo la morte. L’importante, come recita una battuta detta da zia Vanessa (Eileen Atkins) è che vi sia magia nella vita. Cosa vuol dire?

Il regista indica la strada di dare un senso qualunque alla propria vita, ossia non buttare via il tempo che abbiamo a disposizione. Non sembra una grande conclusione ma considerando il suo percorso e la mistica ebraica nella quale è cresciuto, rappresenta una svolta laica e materialista che lascia sorpresi. Quello che propone la lunga storia è l’accettazione che il senso della vita è nel viverla, che la possibilità che l’Universo sia così costruito è possibile.

Sono intuizioni, siamo nel campo del noumeno, rende il film non facilissimo da vedere ma vale la pena riflettere. Gli attori sono ottimi: i protagonisti Stanley e Sophie interpretati, rispettivamente, da Colin Firth ed Emma Stone si sentono assolutamente appartenenti all’Europa del 1928, come se provenissero direttamente dal passato.

 

Emma Stone, foto stampa

Emma Stone, foto stampa

Colin Firth, foto stampa

Colin Firth, foto stampa