Roma. Al RistoArte di via Margutta viene esposta in questi giorni la mostra di Silvia Dayan, artista argentina profondamente legata alla cultura ebraica. Titolo: Mirame, Guardami in italiano. Tematica centrale: le donne e la loro figura vista con occhi esterni, quelli di tutti noi durante un normale giorno. Ha attirato moltissime persone e personalità, tra le quali nel giorno dell’inaugurazione Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica di Roma, al quale abbiamo chiesto di commentare la mostra e l’artista, ottenendo una ottima critica.
La mostra si intitola: Mirame, cioé guardami. Lei ha solamente guardato o ha anche visto?
Lei parla con una figura che non è esperta di arte, però conosco da tanti anni la signora Dayan frequentando amici e salotti comuni. E’ una persona eccezionale. Ripensavo ad una prima dichiarazione che avevo rilasciato stamattina: “lei viene alla mostra?”, al che ho obiettato che mi stavano strappando un commento in un’intervista senza aver visto nulla. Provo a riprendere quel filone.
E’ difficile comprendere le emozioni che riescono a trasmettere gli artisti. Un comportamento molto spesso irrazionale, molto spesso non compreso, trovano successo alla fine della loro carriera, od addirittura peggio: post mortem. Magari alcune cose le si capiscono con un occhio diverso tanti anni dopo, pensando nell’epoca nella quale sono stati composti. In questo caso, una donna argentina, che tutt’ora è gelosa custode delle sue tradizioni, ha scelto l’Italia come luogo di adozione, sono quasi 30 anni che vive qui, con un cuore a Gerusalemme, con un figlio in Israele del quale è sempre molto orgogliosa.
Siamo abituati ed assorbiti dalla corsa col tempo, dalla frenesia della modernità. La risposta è veloce: prima hanno inventato il fax, poi è arrivata l’email, infine si lavora su Whatsapp. L’artista ha il tempo per fermarsi ed ispirarsi: per pensare in tanto tempo poche cose che noi, in pochi secondi, dobbiamo catturare. Riuscire a cogliere l’idea di una donna che rappresenta l’essere veramente cittadini del mondo, dato che ha fatto la spola tra il centro Europa, l’Argentina, l’America ed Israele, è veramente la grande testimonianza. La gratitudine che dobbiamo a tutti gli artisti, in questo caso a Silvia, è proprio quella di fissarci, di fermarci un secondo e provare a trasmetterci delle emozioni.
Mi ha colpito una frase della presentazione -curata da Francesca Barbi Marinetti-: la Dayan non ama raccontare i suoi quadri. Magari è esattamente l’opposto del piccolo narcisismo.
In un momento nel quale ci dobbiamo misurare in ideologie, in cui si riafferma l’identità; e ne parla uno che è orgoglioso delle tradizioni, è ebreo, geloso e custode, sono anche osservante; quindi guai chi tenta di renderci tutti uguali. Siamo tutti diversi, ma in quanto diversi dobbiamo e pretendiamo, uso un termine forte, il rispetto delle nostre diversità. Quando invece assistiamo a delle spinte in Europa che sono localistiche, ma nel termine più becero di separare i popoli piuttosto che unirli, di creare barriere che costruiscono odi nei confronti degli altri, che può essere un immigrato visto come pericolo, minaccia, male assoluto, allora dico che il messaggio che ci arriva da Silvia rompe gli schemi. Ad una persona che ama Roma, che ha deciso di viverci, che ama meno di noi questo paese non le puoi rivendicare l’idea di non essere italiana perché continua a parlare fluentemente con accento argentino; che ama Israele attraverso il figlio, con un cognome, Dayan, che per noi ebrei evoca altre storie, altri miti, dato che fornisce l’idea di Moshe Dayan, l’uomo che guidò verso la vittoria nella Guerra dei sei giorni e che non fu una vittoria di conquista ma di sopravvivenza per lo stato d’Israele.
Io credo che essere qui oggi sia un modo per provare tutto il contrario del rifiuto e del non sentirsi cittadini del mondo: credo di interpretare il carattere di Silvia e sono felice di aver potuto presenziare a questa inaugurazione con l’orgoglio che una mia correligionaria dia lustro al popolo ebraico anche attraverso queste opere.